Capua, 19 marzo 2020
Com’è possibile, nonostante la pena che provo per tutti i vecchini a rischio di sparire e i bambini privati d’aria e sole, et alia trístia, che non mi venga da piangere per l’Italia del 2020 bensí per l’Austria del 1938 oppressa dai nazisti e per il fiore che rappresenta l’Austria, l’edelweiss, a sentire per radio la colonna sonora (https://www.youtube.com/watch?v=LUBKrxvQYhA) di The Sound of Music? Sarà che sempre di umanità si tratta. E la musica rende piú fluido il meccanismo empatico. Probabilmente, se gli speaker della tv cantassero, piangerei, sublimando. Invece i telegiornali, cosí come essi sono, è meglio se non li guardo piú. Serve cercare di tenersi allegri. O qua va fuor di sesto il sistema immunitario.
Per casa – come già da tre anni a questa parte, da che abito da solo, quassú all’ultimo piano di questa turris idealmente ebúrnea da cui vedi sia Ischia sia il Tifata – cammino meditando, monologando, dialogando con chi non c’è, cantando con l’improvvisare arie d’opera o recitativi su un qualsiasi discorso che m’esca naturale («Che ci mangiam stasera? vediamo in frigorifero...»), improvviso concerti al pianoforte per la gioia o la noia di chi sente da fuori, compongo poesie e anagrammi, scrivo il diario arretrato, mi do a progetti vari pieni di speranza, guardo ogni tanto un film di fantascienza (non bastasse quello che sto vivendo), poi c’è Facebook, YouTube, l’odore altrui su una maglietta ecc.
Ma oggi comincio a stare un poco male.
Non esco di casa dal 9 marzo. Soprattutto, non abbraccio un amico né un’amica dal 26 febbraio; e tutta la mia vita poggia da sempre sull’affettività!, non vedendo altro da venerare: aborro il denaro, il potere, la fama; solo amore, puro amore, amore assoluto che fa vedere le persone come divinità – che hanno scordato d’esserlo – e fa meravigliare che camminino sulla terra, dai passanti sconosciuti agli amici e amiche in cima all’Amicarium, e non scordiamo i cani randagi e i passeri e gli insetti.
Mi meraviglio anche di come l’impossibilità di abbracciare chicchessia fino a chissà quando, forse giugno, non mi abbia ancora fatto impazzire del tutto. Eppure soffro di carenze affettive e di ansie da abbandono praticamente dalla nascita, da che mia madre ebbe la setticemia e dovettero tenermi separato da lei proprio nei primi giorni di vita. Per questo tendo a stare sempre azzeccato ’ncuollo ai piú amati amici, tra abbracci fusionali, baci sulla fronte, alle mani, carezze a capelli e peli, dinanzi a tutti e lungo intere agàpi, e i festival-laboratori dell’Accademia Palasciania promuovono l’abbraccioterapia e quant’altro sia d’alimento all’umana armonia. Sempre per quell’arcaica ferita sono ipersensibile, semiparanoico, una piccola promessa mancata mi getta nel dolore quasi fosse il piú atroce tradimento, non ci sono mezze misure: o mi sento in paradiso o mi sento all’inferno.
Per grazia della sorte, questo cuore friabilissimo è protetto e sorretto dall’impalcatura d’un possente intelletto adamantino, modestamente, e insomma la mia filosofia m’aiuta, come altri sarà aiutato dalla sua religione o altra epistème. E cosí, pur costretti, io e i miei affetti piú cari, alla separazione fisica, dispersi fra case lontanissime, ci vedo sempre uniti – ab æterno e ad æternum, anzi fuori del tempo –, in quanto anime, a modo d’un reticolo di stelle, nella profonda Verità Splendente, su di un piano ontologico superiore (sia pur non per valore; lunga storia) a quello di quel ludico sogno, o gioco onirico, che è il mondo materiale.
Tuttavia, poiché intanto è in questo mondo che ho da giocare la mia attuale partita, ovvero vita, tocca considerare l’avere un’età a rischio, quasi cinquantadue anni, e l’aver già avuta – meno di quattro anni fa – una broncopolmonite, per cui ho davvero paura di finire «in un fondo di letto allo spedale», le mie cellule in lotta con i microscopici Robot della Morte partiti dalla Cina, sradicato di colpo – per tornarvi poi chissà quando o non tornarvi piú – dalla mia casa tanto bella e disordinata, i miei strumenti, i diecimila libri, i ricordi dei miei cari morti, l’eco cristallizzata del loro amore, la cui luce invisibile concilia tutte le notti il mio piccolo sonno dentro il grande sonno.
Perciò ieri, saputo che i Robot della Morte sono oramai arrivati a soli cento metri da qui, in Viale Ferrovia, se ho ben inteso in quel villino liberty dove oltre un secolo fa si trovò a pernottare – o cosí dicono – Jules Verne in persona, ho deciso di non uscire piú fino a fine pandemía. Neanche per andare al supermercato. Oggi ho chiesta l’elemosina d’un limone e d’un quartario di riso alla maestrina mia vicina e coetanea, domani un vicino giovane e forte (che da bambino andava da lei a ripetizioni) mi farà la spesa.
Intanto un articolo letto oggi mi ha gettato di peso nell’anticamera della depressione. Quando sarà finita l’emergenza, attestava, il mondo sarà comunque mutato irreversibilmente. Non ricordo neanche piú cosa ho letto tant’era scorante. Inoltre ho visto – e rivisto – il video del carissimo Dario che narra della sua vita sospesa (https://www.facebook.com/jdario92/videos/10219932530858121) e ho provato tanta pena per lui, a vederlo cosí teso e a letizia dimidiata, lui il cui abbraccio trasmette una cosí bella luce spirituale, tanto che a Capodanno 2019, fatti i provini a tutti, ebbi a scegliere lui – pur se appena presentatomi – come sostituto di mia madre per l’abbraccio di mezzanotte.
Ora, è straziante ed è splendido constatare come tanti conservino, nonostante quest’ora cosí buia, o semibuia (dopotutto non è il 1938), la loro luce, sempre, che traspare, come nel video di Dario, dietro i volti stanchi, stressati, a tratti disperati, disperazione o disperazioncella che non ci impedisce di cercare comunque d’allestire qualche momento allegro, lontani eppur vicini piú che mai, chi con l’alzare cori dai balconi (ma senza che si esageri o diventa un supplizio per i reclusi di fronte), chi con un videoselfie in cui schitarra, chi con gli arcobaleni dei bambini, chi con un meme o con un video buffo: la moglie col marito travestito da dàlmata al guinzaglio, le imitazioni del governatore, tutto quel che si può.
C’è chi non può giocare, chi vede passare sotto i suoi balconi una carovana di bare o aleggiare su sé, se non Morte, Miseria. Ma chi ha la buona sorte di vivere come unico disagio il dover restare a casa nonostante i suoi anèliti, porti pazienza, io porterò pazienza, ma se non ce la fa cerchi un aiuto, i numeri ci sono, forse anch’io chiamerò. Forse non gli psicologi, forse solo un amico.
Ecco, anche scrivere questo post mi ha un poco confortato. Umana cosa. E chissà che qualcuno non abbia poi trovato del conforto nel leggerlo, perfino.