Il prologo (in endecasillabi sciolti) doveva servire a chiarire la filastrocca (in quartine di senari), e invece ha seminato nuova oscurità: mi son scappati troppi paroloni, alcuni addirittura hapax inventati per l’occasione. Non mi resterebbe che aggiungere, a propròlogo, un glossario; ma l'accidia mi vieta ciò. Arrangiatevi.
Prologo
Destato all’alba da fattori ignoti
m’è occorso defecare dalla penna,
cosí tentando – invan – di riaddormirmi,
i seguenti dementi ottantaquattro
senari ben strofati in quartine ABBA
a formare tattà una «filastrocca
cretina» – al pari d’altre già – «di prima
mattina». È il disticomitiaco dialogo
(dove restutto vale resta tutto,
fessa vale vagina e ’un vale non)
fra un viandante e, toscofona pur essa,
una signora assisa in soglia a un vascio
dal qual provengono incessanti gemiti.
Si scopre, a mano a mano:
– ch’Eteoclessa
(tale il nome della virago, inteso
dal viandante per inferenza: Etèocle,
al pari della pia sorella Antígone,
era figlio d’Edipo e di Giocasta…)
esercita il mestier del meretricio
per pagarsi le cure odontoiatriche;
– che il fratello superdotato, Antígono,
non è da meno d’essa in tali pratiche;
– che le lor zie son tre retrosibille,
specializzate in onomatopérete,
e la stessa Eteoclessa è proctoglotta;
– che la figliola sua, tuttora senza
nome nonché letteralmente infante
(vedi ínfans che significa in latino),
è irrumata dall’avolo Giocasto;
– e che il viandante ha il tergo sodomitico,
unica innocentezza in tal teatro
d’atro squallor che fugge lucentezza.
Filastrocca
«Cos’è quel rumore
continuo che s’ode?»
«Mia figlia che gode
facendo l’amore».
«Signora, sua figlia?
e lei ’un dice niente?»
«Lo fa co’ un parente:
restutto in famiglia».
«Parente? che cosa
sentire mi tocca!»
«Sí, il nonno. La bocca
l’ha sempre bavosa…»
«E lei si compiace,
signora, di ciò?»
«A di’ il vero no,
ma il cuore ho ormai in pace».
«Ma com’è possibil
che in pace lei l’abbia?»
«Dovrei provar rabbia?
dar ringhi, dar síbil?»
«Ringhiar, sibilare,
sí, e dare di matto».
«E invece mi gratto,
to’, il pelo vulvare».
«Si copra, la prego!
si copra, la imploro!»
«È sempre un lavoro,
è sempre un impiego…»
«Che cosa? dar mostra
dei suoi genitali?»
«Sa, ho carie dentali
per tutta la chiostra…»
«Lei quindi il dentista
lo paga esibendo…?»
«Sí. E inoltre ne vendo
non solo la vista».
«Posso anche toccarla
con questa mia mano?»
«Ma certo, e anche l’ano.
Ah, ho il culo che parla».
«Che strano spettàculo!
e fa profezie?»
«No, son le mie zie
che fanno l’oràculo».
«E cosa dicendo
van tali zie, e come?»
«A ogn’uom dànno un nome,
con peto tremendo».
«(Chissà che fetore!)
Dan nome a chi nasce?»
«Le vecchie bagasce?
sí, ed anche a chi muore».
«Che senso ha si cambi,
ahimè, il nome ai morti?»
«Dicevo gli aborti.
Non siam cosí strambi».
«E come s’appella
sua figlia, signora?»
«Un nome ’un l’ha ancora.
Né parla: sol fella».
«Ahimè, poverina!
e lei la dà in pasto…?»
«A nonno Giocasto,
sí, sera e mattina».
«Giocasto? lei dunque
si chiama Eteoclessa?…»
«Piacere. La fessa
la vuole, comunque?»
«No, grazie. Mi va
soltanto l’uccello».
«Allor mio fratello
Antígono avrà».
«E quanto si prende
per darmelo dietro?»
«Un cinto, ed un metro
di stoffa da tende».
«Per farci che cosa?
mi sfugge il motivo».
«Un preservativo:
la nerchia ha mostruosa».
«Ahimè, abbrividisco!
Fa nulla. Vo via».
«Ma no, caro, stia…
Bah, è andato. ’Un capisco».
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