Incisione di William Caxton da un’edizione del 1480 del trecentesco Polychronicon di Ranulf Higden. |
TRAGEDIA CRETINA
DEL PRINCIPE SMERDI
DA INVIAR DOMATTINA
AL MAESTRO G. VERDI
AL MAESTRO G. VERDI
75 QUARTINE ABAB DI QUINARI
I
C’era una volta
Smerdi di Persia.
Resta irrisolta
la controversia
su quanto il misero
soffrisse, e come,
da che gli misero
un tale nome.
Immaginate
le battutine,
le malcelate
risa… un dí, infine,
non ne può piú:
«Ascolta, madre.
Del nom che tu
e il mio empio padre
m’avete messo
non ti perdóno…»
«Figlio, e che è, adesso?
per me un tal suono
è il piú ämabile;
non ti comprendo».
Lo psicolabile
ringhia, fremendo:
«Ma se anche un peto
suona men rude!»
E, come Amleto
fece a Gertrude,
di Cassandane
lui serra il polso:
«Di amar quel cane,
quell’ebbro e bolso
re di ritagli e
pezze, come hai
cuore?» «Aridaje.
Ma ’un prendi mai
le benedette
ch’Uosm ti prescrisse
tue pillolette
anti-idee fisse?»
Istaspe, analogo
qui di Polonio,
origlia il dialogo.
«Pazzo demonio!»,
fa; «guardie, orsú:
Smerdi si pigli,
ché scenda a piú
miti consigli».
Smerdi la tenda
sforacchia: «È d’uopo
che il cuor si fenda
del vecchio topo».
Cadde trafitto
Istaspe, misero,
e un urlo afflitto
le guardie emisero.
II
Quando re Ciro
seppe di ciò,
rise: «Ti ammiro,
Smerdi, e ti do
da governare
le terre a oriente.
Da guerreggiare
ho, pe’ ttramente,
coi Massageti,
che fanno chiasso
piú dei Cureti;
vado e li scasso».
Volse la testa a-
ll’altro figliuolo:
«Tu a casa resta.
E ’un lasciar solo
il gatto regio, eh;
màmmeta, ’u ssaje,
non l’ha in gran pregio; e
nun se sa maje…»
Cambise stesso i-
nfin, pur lui matto,
buttò nel cesso i-
l misero gatto
su suggestione
della perversa
vecchia canzone
Farai un vers. (Ah:
Istaspe è, intanto,
solo ferito;
poi è in arme accanto
al re, guarito.
Ciò va annotato,
o l’invenzione
al reale dato
troppo si oppone.)
III
Muore il re in guerra.
Cambise eredita
il trono, afferra
un teschio e medita:
«Se adesso rièdemi
Smerdi a palazzo,
e unico erede mi
vede, fa il pazzo.
Gli egri suoi sogni
con lui far fuori
credo bisogni.
Deciso. Muori.
Ma se alle esequie
del babbo aggiungo
le sue, avrò requie?
no, perché a lungo
si lagnerebbe
mammà: “Caino
del tuo non ebbe
cuor piú ferino”.
Ecco: la gente
creder dovría
che egli in oriente
vivo ancor sia…»
«Su che lambicchi?»,
la madre dice;
«su Gianni Schicchi?
su Orfeo e Euridice?
dal testamento
dubbi non sorgono,
né da Ade sento
che ombre risorgono».
«No, penso al regno,
del quale dubito
d’essere io degno».
Ma ecco: d’un súbito,
lí, sul piú bello,
sfonda le porte
quei cui il fratello
in cuor suo morte
di dar promise: «Ah!
sono venuto,
caro Cambise, a-
ppena ho saputo;
piú aria non pompo;
le gambe ho incerte e
l’alma. Se irrompo
come Laerte
devi scusarmi;
scusa se reco
in man le armi
e ho il viso bieco».
«Ma no», fa scaltro
Cambise, al petto
stringendo l’altro;
«le entrate a effetto
sono il tuo forte…
ma, di’, sei solo?»
«Sí: la mia corte
ha preso il volo
dal dí che chiesi
a tutti quanti
di star distesi
a me davanti
sí ch’io potessi
usarli al modo
ch’úsansi i cessi,
atto onde godo».
«Sarai, Smerdino,
stanco del viaggio:
bevi del vino».
E il beveraggio
tosto gli porge
avvelenato.
Di ciò s’accorge
la madre, a lato;
lo guarda in tràlice,
gli indugi scioglie
e lesta il calice
di man gli toglie:
«Secca è la gola
di mamma vostra»;
e se lo scola.
Cosí dimostra
di quanto amore
può esser capace
un genitore;
e muore in pace.
Smerdi, a vederla e-
stinta, vien meno o
quasi. «Una perla è
qui di veleno!»,
grida; al fratello
dà di spadone; e
muore in duello.
«Troppo coglione»,
ghigna colui
che lo infilzò
e i tempi bui
cosí avviò.
IV
Regnò Cambise
sopra i persiani
finché ’un si mise
pensieri strani
nella testona
incoronata:
«Ogni persona
sia qui adunata…»
Ebbe a pretendere
che ognun si andasse
nudo a distendere
sotto le grasse
sue chiappe, spresse
nel defecare,
e si facesse
tutto smerdare.
(Chissà da dove
preso ha l’idea.)
La merda piove;
l’empio si bea.
Piange il suo popolo:
«Perché ci smerdi?»
Ma un capopopolo
sorge: «Io son Smerdi;
torno per mettere
’ncoppa a lu trono
me al posto (he ’a ammettere
ca nun si’ bbuono)
di re Cambise,
che in tale indegno
stato vi mise».
«Tuo sia il suo regno!»,
dànno di fiato
tutti i persiani;
Cambise è dato
in pasto ai cani;
lo pseudo-Smerdi
re è incoronato.
«Sire, rinverdi-
sci il nostro stato».
V
E Pasargade
d’un verde caldo
tinge, e con giade
orna, e smeraldo,
l’illusionista
che Smerdi finge
sé all’altrui vista.
Come ben tinge
l’architettura
di archi, castelli,
ponti e alte mura
d’oro e pastelli
verdi, Oropaste!
Pur se diritto
non ha, ha idee vaste.
Ma è alfin sconfitto
da chi Persèpoli
fa capitale
e in rosa Tièpoli
tinge e in blu opale:
Darïo, figlio
di Istaspe. Ucciso
presto è il simiglio
di Smerdi, e irriso:
mago era Oro-
paste e cosí,
a suo disdoro,
si istituí
la festa della
Morte del Mago.
«La cagarella
ho, dunque cago»,
dice il poeta
a questo punto.
Alla sua meta
eccolo giunto:
narrar di Smerdi
mentre si smerda.
«Musichi or Verdi
pur questa merda,
come ha già musi-
cato libretti
tanto piú astrusi
quanto piú inetti!
ma chi è che adesso, uh!,
mi gratta l’ano?»
Sbuca dal cesso u-
n gatto persiano:
«Io, che ero il micio
del re». «Ah! e come…?
quale artificio…?»
«Magia del nome.
Chi Smerdi invoca
mentre si smerda
fa sí che l’oca
al giuoco perda
e il gatto, i secoli
saltando, vinca».
(Pur lei trasecoli
e si convinca,
caro Maestro
Giuseppe Verdi:
tiri fuor l’estro,
faccia lo Smerdi.)
«Gatto, lucerna
mia, e tu non hai
nome? squaderna».
«Katzi». «Nooo! dài!…»
6-9 febbraio 2015
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