Pure ringraziamo la libreria che ci ospita; i cui titolari, e titolati, con noi dell’Accademia Palasciania sempre furono cortesi, anche oltre il mero rispetto dovuto al mio merito, giacché in loro l’affetto sopravanza l’affettazione; il che non è da tutti i capuani; e il che io conto di ricambiare, tra l’altro, col mettere in opera – o prima o poi – la tanto vagheggiata da Giuseppe Bellone scuola palascianiana di poesia, qui a Palazzo Lanza.
Ma ora, senza por altro in mezzo (giacché i fotografi di cui qui proietteremo le opere non desiderano essere presentati, e io non ho bisogno di presentazioni), spieghiamo in breve l’evento Genesis Wunderkammer: da Adamo ad Amleto tra astratto e concreto.
Marco Palasciano in Genesis Wunderkammer. Foto di Alessandro Calamo. |
Questa sala sta per trasformarsi in una neobarocca «camera delle meraviglie», sia pur virtuale, e nello scenario d’uno spettacolo ibrido dove le immagini fotografiche fanno da sfondo e motivo ispiratore al teatro di parola.
Finanche parola divina (o presunta tale): nell’atto I, infatti, declamerò passi dal biblico Genesi, qua e là contaminati da altri materiali testuali, tra cui quel mio ormai famoso e da tanti amato sonetto sull’infinità dell’universo, e un passo da Baudelaire che vi lascio il divertimento di riconoscere da voi.
Nel contempo, sullo schermo si susseguiranno le immagini elaborate da Salvatore De Maio, astratte, quasi «fotografie di pensieri», o reperti medianici… che egli vi invita – se vi va – a reinterpretare, specchiando in essi il vostro animo, per magari inserire dentro un’urna – piú tardi – le intuizioni rispettive, su foglietti, nel caso di un dibattito post show. O anche solo nell’urna del vostro cuore.
Intanto, dopo l’atto I – e dopo un intervallo musicale con Antonio Faenza alla chitarra – nell’atto II declamerò passi dalla commedia Un Amleto di ritagli e di pezze, una mia vecchia riscrittura dell’Amleto di Shakespeare, integrati stasera – per esigenze legatorie – da un paio di frammenti di Shakespeare puro e da un frammento di Dante (dove Ecuba, regina di Troia, è detta «cattiva» non per cattiveria ma perché prigioniera dei greci, giacché in latino captivus vuol dire prigioniero, come sapete).
E mentre io starò interpretando il principe Amleto (e un po’ anche lo Spettro di suo padre, un lector Dantis, il ministro Polonio e sua figlia Ofelia Coppelia), sullo schermo si susseguiranno le immagini concrete opera di Antonio Calamo e Vincenzo Pagliuca, tratte da un volume di cui sono coautori con Luigi Esposito: The Ghost Museum, edito dal DISCIZIA e dedicato ai locali della facoltà di Medicina Veterinaria (dove tra l’altro, quasi due secoli or sono, conseguí una delle sue tre lauree Ferdinando Palasciano) dell’Università di Napoli “Federico II”.
Locali abitati da meravigliosi quanto polverulenti reperti che – per l’incuria dell’uomo che pure li creò (o demiurgò, se tolti alla natura) – anziché venire collocati nelle ialine teche d’una Wunderkammer giacciono abbandonati alla deriva nel mare dell’oblio.
Andiamo a incominciare. Prima però va detto che nel Genesi – che in ebraico è detto Bereshit, che vuol dire «In principio» – il racconto della creazione di Adamo è doppio, trattandosi di due diverse versioni; conclusasi la prima delle quali ne inizia un’altra, e Dio – che avevamo già visto avviarsi a riposare il settimo giorno – impasta il fango, ne fa l’uomo, gli leva una costola, ne fa la donna…
Quella parte io qui l’ho saltata, andando direttamente alla storia dell’Albero della Conoscenza. Già che c’ero, ho anche cancellato la parte in cui Adamo ed Eva si accorgono di essere nudi e si coprono i sessi con le foglie, sostituendola con una battuta tolta dal film Il mago di Oz, e cioè le parole pronunciate dallo Spaventapasseri allorché il Mago gli conferisce il cervello sotto le specie d’un diploma universitario: «La somma dei quadrati costruiti» ecc.
Quanto al serpente tentatore, va altresí detto, esso non è il Diavolo, contrariamente a come poi esegetato nella tradizione cristiana, ma un serpente e basta. Con esso si alludeva alla ofiolatria dei cananei, per i quali il serpente era animale sacro, legato al culto della fertilità; culto da cui anche molti ebrei erano attratti; e fu per contrastare questo che i loro capi politico-religiosi introdussero nel Bereshit la storia della cacciata dal giardino dell’Eden. Quanto al popolo cananeo, per inciso, fu infine sterminato nel nome del Signore.
Signore si diceva Adonai; da cui il calembour che udrete a un certo punto, Much Adonai for Nothing, che storpia il titolo d’una commedia di Shakespeare – Much Ado for Nothing (cioè Tanto rumore per nulla) – dove la parola nulla ha un doppio senso, poiché con essa si usava indicare – all’epoca – l’organo genitale femminile.
Diceva Giovanni Paolo I che Dio non ci è solo padre, ma anche madre.
E il celebre dipinto di Courbet L’origine del mondo raffigura una vulva.
E non resta che augurarci, poiché il libero arbitrio ci è assai caro, che allorché Dio – il giorno del Giudizio o un altro giorno – si rivolgesse a noi con le parole «Figliolo, c’è una cosa che debbo dirti, io non sono tuo padre, sono tua madre», noi non dobbiamo replicare a Lei «E io non sono tuo figlio, sono una marionetta», come invece pretenderebbe il determinismo meccanicista.
Marco Palasciano
L'applauso finale a Genesis Wunderkammer. Foto di Alessandro Calamo. |
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