venerdì 25 novembre 2011

Lettera di uno spettatore

«Caro Marco, non puoi immaginare come mi sia sentito bene ieri sera, in pace con me stesso, quasi redento. Il tuo severo magistero mostra quello slancio della superiorità che rianima le speranze per qualche parte mortificate dal valore troppo modesto di tutto il resto», mi scriveva tre settimane fa uno spettatore dei più assidui di De natura mundi. Riporto ora una parte della lettera da me ricevuta, dopo l'ottava lezione, da un altro gentile e ormai assiduo spettatore, residente in Lazio (mentre chi abita a un passo mi diserta: nemo propheta in Capua!), all'epistolare scrittura ispirato anche dalla visione d'un barattolo manzoniano; che per mia fortuna non è il notiore Merda d'artista (quella, infine, da far magari scrosciare in capo alle «mandrie anestetizzate» e ai «fattori» loro), bensì l'opera qui riprodotta in foto. Quanto al «palazzo gelato» citato, è Palazzo Fazio, dove dall'anno scorso ahimè i riscaldamenti sono guasti; e il «soppalco» la sala eventi di Palazzo Lanza.


Piero Manzoni, Contiene una linea
di lunghezza infinita
, 1960.
All’improvviso, per il tipico gioco che fanno gli specchi riflettenti, dopo secoli mi sono imbattuto di nuovo in Piero Manzoni. Scontro frontale con la linea di lunghezza infinita, senza esclusione di colpi. Perdita di coscienza del sottoscritto con successivo rinsavimento tra le braccia dello spazialismo (altro che sindrome di Stendhal). Trip meditabondo-meditativo a tratti allucinato.

Lungo il percorso, sopraggiungono frammenti sparsi delle tue lezioni, che con la lunghezza (cronometrica) e l’infinità (spazio-temporale dello Spirito che si fa Parola) hanno molto a che vedere.

Mi sono divertito a fare questa riflessione: anche dentro a un manzoniano barattolo sigillato, da profeta ispirato e orwelliano quale sei, non ti perderesti d’animo: fino all’ultima molecola d’ossigeno cospireresti con te stesso per occupare lo spazio vuoto popolandolo di analisi filologiche, divulgazioni erudite, citazioni ironiche, autocitazioni ispirate. Forte dell’inneres Auge piantato in fronte, ti produrresti in una sistematica resistenza verticale al vuoto orizzontale che ti circonderebbe. Resistenza, quindi pressione, infine energia propulsiva per schizzare fuori dal barattolo («L’ignoranza non è forza!» «La libertà non è schiavitù!», ti sentirei urlare come un eroe col mantello di pergamena). Riprecipiteresti sul palco del teatro, o della vita, che poi sono la stessa cosa. Un inchino alla platea, e via col De natura mundi.

Sempre Manzoni, a proposito dello spazio totale: «Il verificarsi di nuove condizioni comporta, con la necessità di nuove soluzioni, nuovi metodi, nuove misure; non ci si stacca dalla terra correndo e saltando; occorrono le ali; le modificazioni non bastano; la trasformazione deve essere integrale».

Non so se le trasformazioni che affrontiamo alla fine trovino un compimento sferico. Non so neanche se il concetto di «integrale» sia giusto. Ma di certo dietro il tuo correre e saltare (dialetticamente parlando) si aprono le ali che ti staccano da terra. E noi con te ci avviciniamo a quanto di più spirituale un palazzo gelato o un soppalco possano permettere; sorvoliamo le mandrie anestetizzate, i loro messia rovesciati, i fattori col bestiame che rumina balordo nei ministeri e in mezzo ai palinsesti delle televisioni generaliste e nelle associazioni inconcludenti e nelle finte conventicole, e con entusiasmo non resisteremmo alla tentazione di produrci in una scrosciante cascata di merda per vendicarci. Per battezzarli. E possibilmente, dopo il perdono, svegliarli dall’incantesimo.

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